Storie cooperative dal mondo – CEA, cooperare in Libano per garantire lavoro in Italia

Internazionalizzare vuol dire fare rete. E a uno come me, che è cresciuto a pane e cooperazione sui colli emiliani, condividere conoscenze e know-how con i paesi in via di sviluppo non può che venir naturale”. 

 

Giuseppe Salomoni, non è un missionario o un volontario di una Ong, ma è presidente della Cooperativa Edile Appennino (CEA) che, solo in Italia, occupa 356 persone e ha un fatturato annuo superiore ai 50 milioni di euro, una settantina di soci e un’operatività lungo tutta la penisola dall’Alto Adige alla Sicilia.

 

CEA in Libano è andata a (es)portare il modello cooperativo italiano. “Questo vuol dire due cose: in primo luogo siamo una cooperativa ma rientriamo in quello che viene definito settore profit, quindi se andiamo all’estero vogliamo fare impresa. Ma essendo cooperatori non crediamo nel profitto prima di tutto. Noi portiamo la radicalizzazione sul territorio, quella tipica delle nostre cooperative di produzione lavoro. E questo ci caratterizza in un mercato globale molto competitivo”.

 

Il progetto avviato in Libano mira alla ricostruzione e al potenziamento del sistema idrico e alla raccolta delle acque reflue nell’area di Jbeil, a nord del paese. L’opera, finanziata dalla Cooperazione italiana allo sviluppo – MAECI per un importo complessivo di 30 milioni di euro, sarà portata a termine nell’arco di due anni e beneficerà oltre 50mila persone residenti nella zona. 

 

“Offriamo assistenza nello start-up e diamo vita a piccole cooperative locali affinché possano crescere e poi dedicarsi alla manutenzione delle opere. Noi cooperatori abbiamo un importante know-how tecnico, lo condividiamo creando nuovi cooperatori che possano svilupparsi a loro volta”. 

 

Ed è proprio questa la ratio che soggiace la nuova legge italiana sulla cooperazione allo sviluppo: favorire lo scambio di tecniche e creare sinergie tra il settore profit e le Ong. 

 

“Esportiamo valore cooperativo dando vita a cooperative locali radicalizzandoci sul territorio. Cerchiamo di sviluppare il posto dove andiamo, ma senza abbandonare il mercato italiano. In un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, specialmente nel nostro settore, l’internazionalizzazione – la nostra attività in Libano – ci garantisce un fatturato che ci permettere di mantenere l’occupazione dei nostri soci italiani. Se non è cooperazione questa”. 

 

Cosa direbbe al presidente di una cooperativa che, come la sua, presenta una elevata specializzazione e know-how tecnici che potrebbe condividere con popolazioni che non le conoscono ancora in mercati che stanno crescendo? Come lo convincerebbe ad esplorare nuove culture e mercati? 

 

“Gli direi di ritrovare lo spirito cooperativo originario, quella che io chiamo la follia della cooperazione: lanciare sempre per primo il cuore oltre l’ostacolo. Perché poi, con le partnership giuste, la testa, il busto e le gambe seguiranno il cuore e il corpo tutto si ritroverà dall’altra parte”. Quella follia, insomma, che altro non è se non una leggera spinta per dare il volo al coraggio.

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