La mano trema mentre il gesso affonda sulla superficie porosa della lavagnetta. La «k» è la lettera più complicata. Marie Koroma non si arrende: alla fine doma le dita ribelli e sulla tavola compare il suo nome. «So scrivere – racconta entusiasta ad Avvenire– e anche contare. I miei figli dicevano che ero troppo vecchia per imparare…». Ad appena 28 anni, nella zona di Songo, a trenta chilometri da Freetown, le donne sono vecchie.
In Sierra Leone – il 180esimo Paese su187 nella classifica Onu dello sviluppo umano –, del resto, l’età media supera di poco i 40 anni e il 70 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. «Magari, però, quando i miei bambini cresceranno sarà diverso», afferma Marie. Il suo sguardo fissa con insistenza un fazzoletto di cinque ettari di terra nuda, poco lontano dalla scuola-capanna. Intorno, la foresta prosegue avida. Non si azzarda, tuttavia, a intrufolarsi in quello che tutti chiamano “il campo sperimentale”.
Hanno appena finito di disboscarlo. «Abbiamo fatto giusto in tempo: l’abbiamo terminato per Natale». Anche i musulmani –nella zona le fedi islamiche e cristiana convivono in pace – hanno acconsentito a scegliere questa come data-simbolo. Fedeli di entrambe le religioni hanno celebrato insieme la festa. «E oggi cominceremo la semina. Il prossimo 25 dicembre magari ci saranno le piantine..», racconta.
La speranza dei figli di Marie e delle altre centinaia di bimbi dei cinque villaggi che compongono Songo è racchiusa in questo quadrato di terra scura. Da cui dipende anche il futuro dei trenta piccoli disabili ospiti della Grafton Polio Home, alla periferia di Freetown, che, a Natale hanno voluto dedicare una preghiera speciale al “campo sperimentale”.
«Se vi cresceranno mais e arachidi vorrà dire che il sistema sta funzionando», spiega ad Avvenire Daniel Sillah, coordinatore del progetto appena avviato da Coopermondo, associazione per la cooperazione internazionale di Confcooperative, e finanziato dalla Conferenza episcopale italiana (Cei). L’idea è quella di innescare un circolo virtuoso. «Come? Insegnando a leggere e a scrivere a cento abitanti, perlopiù donne. È il passo fondamentale perché imparino a gestire la vita quotidiana.
Contemporaneamente aiutiamo una sessantina di agricoltori a migliorare le tecniche di produzione », continua Daniel. Nozioni minime: come fare le buche, irrigare e alternare le sementi. «Più raccolto significa più cibo, dunque la possibilità di fare scorte, vendere o scambiare le eccedenze». E con il ricavato realizzare pozzi, acquistare generatori di corrente, mettere su un dispensario medico.
«Oltre che finanziare la Grafton Polio Home ». I cui ragazzi – molti sono orfani altri sono stati abbandonati perché in Sierra Leone tuttora la disabilità è sinonimo di maledizione – potrebbero poi trovare lavoro nei campi o nella lavorazione dei prodotti.
Pensa in grande Daniel: non si stanca di progettare. «L’ho imparato in Italia. Ci ho vissuto nove anni con l’aiuto di don Oreste Benzi», spiega. Daniel è stato uno dei profughi della terribile guerra che ha devastato la Sierra Leone tra il 1991 e il
2002.
Quando è esploso il conflitto, il giovane aveva 21 anni e aiutava il missionario Saveriano Giuseppe Berton a mandare avanti la sua casa famiglia. «È stato lui a farci fuggire quando le violenze erano ormai incontrollabili. E rischiavo di venire ucciso o reclutato come bimbo-soldato».Grazie a padre Giuseppe e a don Oreste, Daniel ha studiato all’Università Gregoriana e poi è stato giornalista a Tele Romagna.
Nel 2008, il ritorno in Africa. «Per restituire un po’ dei tanti doni che ho ricevuto al mio popolo. Sono scappato attraverso le fognature, ho attraversato foreste, visto cose orribili. Eppure, mi sono salvato, grazie alla generosità di tanti. Ora è il mio turno di dare una mano. In che modo? Inizierò con l’aiutare questo quadrato di terra a produrre il primo germoglio», conclude. Come dice un proverbio africano, «mille passi cominciano sempre da uno».
a cura di Lucia Capuzzi – Avvenire
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